ATEISMO E
RELIGIONE NEL GIOVANE HEGEL
di Enrico Galavotti
(testo
tratto dal sito dell’autore www.homolaicus.com)
La politica ideale, la cultura
ideale, l'organizzazione sociale da prendere come modello, per il giovane
Hegel, era quella della Grecia classica, il cui filosofo per antonomasia era
stato Socrate. Non era certo la civiltà ebraica, che anzi venne sempre
duramente criticata nei suoi scritti. Negli anni 1792-94 egli s'era già formato
un'opinione filosofica sul giudaismo che non muterà più nel corso della sua
vita, benché sarebbe del tutto fuori luogo qualificare Hegel come un
antisemita.
Che cosa in particolare egli non
apprezzava degli ebrei? Anzitutto vedeva lo spirito collettivistico che animava
quella civiltà come una insopportabile forzatura per la libertà del singolo.
"Gli ebrei erano abituati ad essere arringati in modo rozzo dai loro poeti
nazionali, le loro orecchie già dalle sinagoghe erano abituate alle prediche
morali e a un tono diretto di ammaestramento"(p. 202). Cioè pareva loro
del tutto normale che gli avversari ideologici o politici venissero definiti
"vipere".
Hegel aveva in mente il libero
confronto delle idee sull'Areopago o le discussioni erudite nelle Accademie del
mondo greco. Non riusciva minimamente a vedere di quel mondo le radici
classiste né a capacitarsi che quelle erano appunto delle mere discussioni
retoriche, per lo più fini a se stesse, mentre, al contrario, nel mondo ebraico
ogni più piccola divergenza interpretativa della Legge o delle altre tradizioni
scritte e orali poteva contenere, in germe, un potenziale eversivo, di
contestazione dei poteri dominanti. I filosofi di quella civiltà, cioè i
profeti, venivano costantemente perseguitati. Persino un semplice canto
religioso come il salmo poteva servire per chiedere a Jahvè di sterminare i
propri nemici.
Era difficile per un tedesco
idealista, aristocratico, individualista accettare una civiltà materialista,
democratica e collettivista come quella ebraica. Lo stesso Gesù Cristo, per il
giovane Hegel, costituiva un'anomalia vera e propria in un contesto come quello
ebraico, tant'è ch'egli fece di tutto per equiparare la missione del Nazareno a
quella di Socrate o comunque di un qualunque filosofo greco, il cui compito
principale fosse d'insegnare ai propri discepoli di guardare con distacco la
realtà. Nel seguirlo i dodici apostoli dovevano progressivamente liberarsi di
tutta la loro "ebraicità", ovvero l'attaccamento per le cose terrene.
Scrive il giovane Hegel: "una
distinzione basata su segni esterni si trae dietro uno spirito di setta,
l'estraniarsi dagli altri"(p. 204). I "segni" potevano essere il
tempio di Gerusalemme, la nazione santa, il popolo eletto, ma anche un
sacramento cristiano o addirittura uno Stato cristiano, che per Hegel erano
sempre culturalmente di derivazione ebraica.
L'ideale di uomo da imitare era il
filosofo Socrate, che di politico - secondo Hegel - non aveva avuto nulla, meno
che mai un ideale di società da realizzare coi propri discepoli; egli voleva
soltanto "ricondurre l'uomo a se stesso"(p. 206). Se il cristianesimo
era stato accettato da genti romane, era stato perché la loro civiltà era
entrata profondamente in crisi: il cristianesimo rispondeva all'esigenza di una
civiltà in decadenza a causa dell'ineguaglianza dei patrimoni. Con la fine
della società antica, infatti, secondo Hegel, nasce il moderno individualismo e
quindi la necessità che una religione regolamenti la vita privata.
Da notare che, essendo il suo
ideale di libero pensatore un soggetto di tipo filosofico, il giovane Hegel
mostrava profonda antipatia per tutti quegli aspetti sovrannaturali che nei
vangeli descrivono la vita e la morte di Gesù. Hegel era sostanzialmente ateo,
anche se esplicitamente impolitico. La teologia politica degli ebrei, il
confessionalismo di stato del giudaismo erano lontanissimi dalla sua
sensibilità. Anzi, secondo lui, quanto di peggio avevano avuto gli ebrei:
"la partigianeria, l'odio verso gli altri popoli, l'intolleranza del loro
Geova"(p. 207), era stato travasato nel cristianesimo, rendendo anche
questa religione non meno odiosa dell'altra.
Secondo Hegel la Germania del suo
tempo viveva la religione con sano relativismo unicamente grazie ai propri
filosofi, che, essendo agnostici o addirittura atei, avevano saputo togliere al
cristianesimo l'arroganza di chi vuole imporre politicamente le proprie idee
religiose. In tal senso i filosofi tedeschi avevano svolto un compito non molto
diverso da quello dei loro colleghi greci di duemila anni prima. La stessa
rivoluzione francese era servita come occasione di riscatto della ragione
contro l'oscurantismo del cristianesimo politicizzato.
Come si può quindi notare, già nel
giovane Hegel coesistevano due atteggiamenti ben distinti: uno filosoficamente
progressista nei confronti delle pretese integristiche della religione
ebraico-cristiana; un altro politicamente conservatore nei confronti della
pretesa in generale di voler realizzare una società più democratica, più
giusta. "Cristo aveva di mira solo la formazione e la perfezione del
singolo uomo"(p. 208), senza alcun interesse per la società nel suo
complesso.
Con un'impostazione ermeneutica del
genere, Hegel non era minimamente in grado di comprendere la politicità dei
vangeli e meno ancora la politicità rivoluzionaria del Cristo, che quegli
stessi vangeli avevano voluto censurare o mistificare. Senza rendersene conto,
egli finiva con l'apologizzare un'immagine di messia che, per quanto ateo
fosse, risultava conforme all'ideologia cristiana, che sul piano politico è
sempre stata conservatrice.
Hegel considerava la religione
cristiana profondamente viziata da ambizioni di potere, derivanti dal
giudaismo, che la rendevano cieca sul piano culturale. E' vero ch'egli non ha
mai fatto del Cristo l'artefice di questo fanatismo, ma non ha neppure fatto
del Cristo un simbolo dell'istanza rivoluzionaria antiromana.
La trasformazione della religione
da semplice creduloneria a ideologia che difende gli interessi di potere è
avvenuta quando il cristianesimo ha preteso d'imporsi come confessione
mondiale: quindi con le crociate, con la conquista dell'America, la tratta
degli schiavi ecc. Uno Stato "cristiano" che "volesse introdurre
nella sua legislazione i comandi di Cristo... si dissolverebbe ben
presto"(p. 217), proprio perché "molti comandi del Cristo sono in
contrasto... coi principi del diritto di proprietà, di legittima difesa
ecc."(ib.).
Cristo stava a Socrate come
l'ebraismo al cristianesimo: percependo l'istanza sociale di liberazione come
un impegno troppo gravoso, il giovane Hegel aveva trasformato Socrate e Cristo
in due filosofi leggendari, autoreferenziali, troppo superiori rispetto alla
media per potersi lasciar coinvolgere nelle contraddizioni della prosaica vita
quotidiana; in quanto intellettuali aristocratici essi si sacrificarono in nome
di un altissimo ideale di umanità, che di materiale e di politico non aveva
nulla. Quanto alle due suddette religioni, la secondogenita non è stata che un
prodotto riveduto e corretto dell'altra.
D'altra parte, fa capire Hegel, se
davvero si volessero applicare agli Stati gli ideali originari dei vangeli, non
dovrebbe neppure esistere il concetto di Stato. Questo spiega il motivo per cui
l'insegnamento di Cristo e di Socrate, a differenza di quello dell'ebraismo e
del cristianesimo, si rivolgeva esclusivamente al singolo individuo.
*
* *
Durissimo è anche il giudizio
hegeliano nei confronti della Riforma, la quale non seppe affatto recuperare lo
spirito originario del cristianesimo, pur avendone le intenzioni. I riformatori
infatti - prosegue Hegel - da un lato sottomisero il cristianesimo al potere
temporale, poiché erano convinti che senza l'aiuto dello Stato il cristianesimo
si sarebbe dissolto (quindi, sotto questo aspetto, evitarono di comportarsi
come il clero cattolico, che faceva della religione un'arma contro le
istituzioni laiche); dall'altro però, avendo "pregiudizi teologici
inerenti ad un'innata corruzione della natura umana"(p. 220), essi
continuarono a sostenere un'immagine autoritaria del cristianesimo, favorendo
in tutti i modi l'idea di Stato confessionale.
Secondo il giovane Hegel il
cristianesimo sarebbe dovuto rimanere pura e semplice "religione
privata", nei confronti della quale il cittadino doveva essere lasciato
libero di credere o di non credere. In tal modo esso avrebbe rischiato meno di
corrompersi, di trasformarsi in uno strumento di oppressione. "Il mettere
insieme i propri beni è possibile in una religione privata, ma non è
realizzabile in uno Stato"(p. 231).
Hegel dunque era disposto ad
accettare una religione privata che non imponesse le proprie dottrine,
esattamente come avveniva nel mondo greco-romano, ove ognuno era libero di
credere nel dio che voleva. Egli non si rendeva conto che il cristianesimo
petro-paolino, avendo avuto un'origine giudaica, non avrebbe mai potuto essere
simile a una qualunque religione pagana, benché dalle mitologie ellenistiche
esso avesse attinto a piene mani, proprio allo scopo di eliminare dal messaggio
originario del Cristo tutti quegli aspetti politicamente eversivi, che non
avrebbero potuto permettergli di cercare col mondo romano un compromesso
politico.
Un compromesso che il potere romano
accetterà solo tre secoli dopo la nascita del cristianesimo: quello della
separazione tra chiesa e Stato, secondo cui l'imperatore rinunciava a pretendere
dai cristiani un riconoscimento di tipo religioso. Poi l'evoluzione storica
fece sì che nel brevissimo passaggio da Costantino a Teodosio si realizzasse la
transizione dallo Stato laico a quello strettamente confessionale. Con
Costantino lo Stato romano aveva rinunciato al proprio confessionalismo,
permettendo a chiunque di praticare il proprio credo, e con Teodosio si fece
del cristianesimo la nuova religione di stato. Si affermò e si negò la libertà
di coscienza e quindi di religione nel volgere di pochissimo tempo, e la chiesa
cristiana si guardò bene dall'opporsi a questo abuso giuridico e politico.
Tuttavia anche se il cristianesimo
si fosse comportato alla stregua di una qualunque religione pagana,
sostanzialmente indifferente alla politica, Hegel avrebbe avuto lo stesso
qualcosa da ridire sui suoi contenuti teologici. Infatti, essendo
sostanzialmente ateo o agnostico, egli, sulla scia di Kant ma anche di
Rousseau, Spinoza, Shaftesbury, era disposto a credere nella religione, ma solo
a condizione che questa si ponesse entro i limiti della ragione, cioè solo se i
suoi dogmi non contraddicevano la "ragione umana universale"(p. 233).
Il che, da un punto di vista religioso, era una contraddizione in termini, in
quanto nessuna confessione avrebbe mai accettato di negare i miracoli, le
guarigioni sovrannaturali, i racconti di resurrezione ecc. Per il
cristianesimo, anzi, proprio tutta questa mitologia era servita per mistificare
il lato politico-insurrezionale del messaggio del Cristo e per costruire intorno
a questa figura storica una rappresentazione fantastica che inducesse a credere
nella sua divinità.
I vangeli non avrebbero mai potuto
essere dei racconti di filosofia idealistica e umanistica, proprio perché
volevano porsi come strumento di organizzazione sociale di comunità che al loro
interno presumevano di vivere valori e ideali alternativi a quelli dominanti.
Hegel non si rendeva ben conto che nel momento in cui il giudaismo venne
distrutto dai romani, permettendo al cristianesimo di nascere sulle sue ceneri,
le contraddizioni del sistema schiavistico avevano raggiunto livelli inusitati.
L'incredibile successo del cristianesimo dipese anche dal fatto ch'esso
costituiva una risposta, ancorché parziale, alle grandi difficoltà che i
cittadini avevano di vivere in un impero sempre più dispotico, militarizzato e
fiscalmente esoso.
Le comunità cristiane
rappresentavano una forme di solidarietà sociale, in cui i ceti più marginali
potevano trovare una qualche loro collocazione. Politicamente il cristianesimo
era un fenomeno illusorio, ma sul piano aggregativo funzionava. Le religioni
pagane restavano del tutto estranee alle contraddizioni sociali: nel migliore
dei casi possedevano riti e funzioni che nel mondo rurale valorizzavano i cicli
della natura e che il cristianesimo, dall'alto della propria superiorità
ideologica, preferì non conservare.
Il lato conservatore della
filosofia hegeliana appare subito evidente di fronte alle contraddizioni
sociali. Anch'egli infatti, come il cristianesimo, afferma, con
quell'aristocraticismo così tipico di tutta la sua filosofia, che dobbiamo
abituarci "a non considerare come un torto tutto quello che può accadere
contro la nostra aspettativa. Dobbiamo invece abituarci sempre di più a
considerarci dipendenti dalla natura"(p. 239). Il che, detto altrimenti,
significa che le contraddizioni sociali vanno viste come una necessità
indipendente dalla volontà umana. "Dietro il simulato disprezzo dei beni e
degli onori di questo mondo si nasconde spesso un'invidia che molto male si
leva contro coloro che li possiedono... mentre in effetti non avrebbero nulla
di cui lamentarsi"(p. 240).
Hegel, già in gioventù, tendeva a
circoscrivere la contraddizione sociale, quella antagonistica, entro limiti di
tipo psicologico, cosa che in sé sarebbe stata accettabile solo in riferimento
a quei soggetti patologici che, pur non soffrendo di problemi economici,
vogliono darsi a tutti i costi, cioè anche a rischio d'apparire fanatici, uno
scopo superlativo per cui vivere, che si traduce in una forma di contestazione
per partito preso, facendo di se stessi il perno attorno cui far ruotare il
mondo intero. Sarà poi questo il caso di Kierkegaard.
Il "pretismo" d Hegel è
comunque evidente là dove, pur considerando inutile la religione sul piano
filosofico, la considera utile su quello politico, in quanto forma di
aggregazione sociale. La religione cioè può aiutare gli uomini più deboli
(intellettualmente) a divenire "morali", a patto ovviamente ch'essa
non pretenda di darsi una veste politica e che resti nei limiti della ragione.
D'altra parte gli stessi governi
laici possono assumere la religione come strumento di tutela del bene comune:
sarebbe controproducente per un governo pensare di poter contrastare le scelte
in campo religioso che le nazioni hanno già preventivamente compiuto. Hegel era
contrario alla clericalizzazione della politica ma non a uso politico della
religione per le necessità dello Stato.
Egli tuttavia s'immaginava una
tipologia di cristianesimo che storicamente non era mai esistita: una forma di
deismo filosofico vagamente ispirato soltanto ad alcune idee evangeliche,
quelle che non chiamavano in gioco le ragioni della fede. Il suo idealismo
voleva porsi, sin dai suoi primi scritti, come superamento e inveramento laico
del cristianesimo. Gli pareva del tutto inconcepibile far derivare la verità
dal principio di autorità o di rivelazione o di tradizione storica; per questo
insisteva nel ribadire a chiare lettere l'autonomia della ragione umana e della
virtù morale. La ragione è opposta alla fede in maniera naturale, soprattutto
perché non può accettare il fondamentale postulato su cui si basa il
cristianesimo, e cioè la strutturale peccaminosità dell'esserci, l'impotenza a
compiere il bene da parte dell'uomo, e quindi la necessità di dover accettare
una redenzione non per meriti propri ma per grazia divina.
Posto questo assioma, qualunque
controversia su temi teologici era per il giovane Hegel un'operazione priva di
senso. La religione ha diritto ad esistere o comunque ad essere ascoltata nella
misura in cui i suoi principi non contraddicono quelli della ragione umana, e
di questo devono farsi carico gli Stati, non le chiese, sempre troppo
unilaterali quando vogliono far valere il loro punto di vista.
Forse si può addirittura sostenere
che, per queste sue idee laiciste, il giovane Hegel era più progressista di
quello maturo, che evitò p.es. di considerare come del tutto infondate le prove
dell'esistenza di dio. Il giovane Hegel non salvava niente di quel
cristianesimo che andava dalla svolta teodosiana alla sua epoca. Anzi, si
chiedeva meravigliato il motivo per cui "il primato della ragione fosse
stato misconosciuto così a lungo"(p. 314).
Testi di Hegel