IL
DECLINO DELL' ITALIA NEL SEICENTO: DALLE GRANDI PIOGGE AL TRIONFO NORD-EUROPEO di Ignazio Burgio.
(tratto dal sito
dell’Autore CATANIACULTURA)
Nell'arco di pochi decenni, dalla fine del Cinquecento all'inizio
del Seicento, l'Italia passa da potenza commerciale ed
industriale quale era a partire dagli ultimi secoli del Medioevo, a paese
depresso e in declino. Questo articolo dopo aver fatto
piazza pulita dei classici luoghi comuni invocati per spiegare questa parabola
discendente - il primo dei quali la presunta responsabilità attribuita ai
grandi navigatori e all'apertura delle rotte oceaniche - ne descrive
dettagliatamente le reali cause: tutto iniziò con un catastrofico mutamento climatico...
Un vecchio luogo comune ancora molto diffuso vuole che la scoperta dell'America
abbia prodotto come conseguenza immediata la decadenza del commercio nel
Mediterraneo a tutto vantaggio delle nuove vie oceaniche. Ciò avrebbe
comportato anche il declino delle ricche città mercantili ed
artigianali italiane quali Venezia, Genova, Firenze, Milano, insieme a tutti
gli altri centri minori. In realtà si tratta di una falsa convinzione priva di
qualunque fondamento storico. Come hanno dimostrato in questi ultimi decenni
gli studi di autorevoli storici dell'economia - tra cui anche l'italiano Carlo
Maria Cipolla - i traffici commerciali nell'area mediterranea non vennero
mai meno, anzi proprio nel Cinquecento aumentarono notevolmente d'intensità
grazie ad una favorevole congiuntura di sviluppo economico prodotta
dall'incremento demografico, dalla maggiore disponibilità di metalli preziosi,
e dunque da un generale incremento dei redditi e della domanda. Dai porti
levantini continuarono ad affluire le preziose spezie, i costosi tessuti di
seta e le molte varietà di pietre preziose, il cui traffico rimase per tutto il
XVI secolo ben saldo nelle mani dei più che invidiati veneziani. Inoltre navi
cariche di beni di prima necessità come il grano, il vino, l'olio,
anch'esse battenti bandiere veneziane e genovesi percorrevano tutto il bacino
del "mare nostrum" facendo perno su quelle regioni ricche di
eccedenze agricole come la Spagna, l'Egitto ed in primo luogo la Sicilia, che
ancora in quel secolo, con le sue 10.000 tonnellate di grano esportate in media
ogni anno, rappresentava il vero granaio d'Italia. Ma
le navi italiane trasportavano anche gli ottimi tessuti delle numerose
manifatture delle città più interne: Firenze e Milano in primo luogo, ma anche
Padova, Como, Bologna insieme ai tanti altri centri più piccoli ma non meno
rinomati in ogni angolo d'Europa. I tessuti italiani trovavano facile mercato
sia nell'oriente ottomano, sia nei Balcani attraverso il porto neutrale di
Ragusa (oggi Dubrovnik), sia in Europa centrale per
le vie terrestri e fluviali, ed inoltre varcando lo
stretto di Gibilterra, sempre su navi veneziane e genovesi, anche sui ricchi
mercati dell'Europa settentrionale.
Il tentativo effettuato dai portoghesi (che nel 1498 avevano doppiato il Capo di Buona Speranza) di monopolizzare il commercio
delle spezie strappandolo ai veneziani, si rivelò alla fine un fallimento. La
noce moscata, i chiodi di garofano, il pepe e la cannella normalmente venivano trasportati nell'Oceano Indiano su navi arabe. In
prossimità della penisola arabica i vascelli potevano prendere due direzioni
diverse. Alcuni imboccavano il Golfo Persico per sbarcare le spezie nel porto
di Hormuz in Persia, da dove poi i prodotti per via
di terra raggiungevano i porti mediterranei di Aleppo e Tripoli di Siria. Altri
si dirigevano verso la città di Aden, nell'attuale Yemen, consegnavano le
spezie a navi più piccole (in genere i famosi "sambuchi" arabi) e
queste ultime poi imboccavano le acque più basse ed
insidiose del Mar Rosso. Per quella via i preziosi carichi raggiungevano i
porti di Suez e di Alessandria dove venivano venduti
ai mercanti veneziani. Nei primi anni del Cinquecento i portoghesi crearono
colonie fortificate sia in Asia che in Africa, ed a
colpi di cannone tentarono di spezzare quella tradizionale catena di
transazioni, per prendere nelle loro mani l'intero traffico e dirottarlo,
attraverso il Capo, lungo l'Oceano Atlantico verso Lisbona. Ma
non riuscirono mai a controllare ambedue le vie di transito verso il Mediterraneo,
specialmente la rotta del Mar Rosso che rimase sempre almeno parzialmente
libera.
Per di più i mercantili di Lisbona dovevano fare i conti anche con le temibili
navi pirate e corsare che infestavano ogni angolo
dell'Atlantico. Alla fine i portoghesi si rassegnarono a recedere dai loro
propositi monopolistici. Nel 1585 anzi il sovrano spagnolo Filippo II dopo aver
conquistato il Portogallo tentò di giungere ad un
accordo coi veneziani. A loro offrì di rifornirli di spezie a condizioni
vantaggiose, a patto che lasciassero perdere i loro
abituali fornitori arabi. Ma i veneziani guidati dal loro fiuto commerciale non
accettarono prevedendo che l'afflusso di spezie dal levante arabo sarebbe stato
nell'immediato futuro ancora più intenso e vantaggioso come
in effetti fu.
Nonostante tutte queste congiunture favorevoli con la fine del Cinquecento e
l'inizio del nuovo secolo le città della nostra
penisola si trovarono di fronte ad un generale declino dei propri traffici e
della propria attività industriale, e l'Italia intera si ridusse alla fine del
Seicento, da potenza economica egemone quale era ancora in Europa fino a cento
anni prima, ad una regione povera e quasi totalmente priva di manifatture e
flotte mercantili. Come potè avvenire tutto ciò ? Si possono rintracciare due ordini di motivi principali,
il primo meno decisivo anche se drammatico, ed un
altro senz'altro più determinante e di fondamentale importanza.
In primo luogo l'economia italiana del Seicento risentì pesantemente dei
cosiddetti "fattori manzoniani": fame, peste, guerra, oltre ad
impoverire il territorio, specialmente quello settentrionale, più
"industrializzato", e disturbare la regolarità dei traffici, ridussero di almeno un terzo la popolazione italiana, e
soprattutto in maniera troppo rapida perchè la
produzione manifatturiera ed i servizi di distribuzione delle merci potessero
reagire adeguatamente e riorganizzarsi. Dalle testimonianze scritte dell'epoca
lasciateci da osservatori italiani ed esteri emerge per certe città e regioni
uno scenario a tinte fosche, come quello descritto appunto nei Promessi Sposi
riguardo al territorio di Milano intorno al 1630, allorchè
la prima ondata epidemica del Seicento colpì quasi tutte le regioni
settentrionali uccidendo più di un milione di persone. Per quanto drammatici
tuttavia nè la carestia, nè
la peste, nè tanto meno la guerra appaiono
agli storici dell'economia come i reali e decisivi motivi della decadenza
italiana nel Seicento, anche perchè non era certo la
prima volta che gli stati in cui era divisa la penisola avevano a che fare con
queste terribili emergenze. Per prendere come esempio sempre il secolo
precedente, nella prima metà del Cinquecento l'Italia intera fu messa a ferro e
fuoco dagli eserciti Francesi, Spagnoli, Svizzeri nonchè
Tedeschi che con il pittoresco nome di Lanzichenecchi saccheggiarono persino
Roma nel 1527. In particolar modo la Lombardia rimase temporaneamente spopolata
anche a causa di gravi epidemie come quella ad esempio del 1524-1528. Ma neanche la seconda metà del XVI secolo si dimostrò troppo
benevola col "Bel Paese". A Venezia tra il 1570 ed
il 1573 la guerra contro l'Impero Ottomano provocò una grave crisi alimentare,
ed appena due anni dopo tra il 1575 ed il 1577 la peste si portò via più di un
terzo della popolazione della Serenissima.
Ma non appena passavano gli anni di tempesta bellica e pestilenziale, nei vari staterelli ed in ogni città semispopolata i vuoti demografici venivano ben presto
riempiti, le manifatture tessili e le altre attività artigianali ricevevano
nuova manodopera, e sia la produzione che i commerci riprendevano alla grande.
Fu così che paradossalmente l'economia italiana mantenne il suo primato in
Europa fino a tutto il XVI secolo, anche allorchè
eventi bellici lontani non mancarono di produrre seri contraccolpi ai suoi
traffici. Nel 1586 ad esempio l'importante nodo commerciale e finanziario di
Anversa venne saccheggiato dall'esercito spagnolo, e
la tradizionale via commerciale che univa questa città alla Germania e più a
sud fino all'Italia e a Venezia subì un colpo tale da non riprendersi più dopo
quella data. Ma più che Venezia ebbe a soffrirne in
realtà l'Inghilterra che si serviva di Anversa per esportare sul continente i
suoi tessuti. L'industria inglese cadde in una tale depressione che gli ci
vollero quasi quarant'anni per riprendersi. Venezia e le altre città italiane,
forti della loro egemonia sul Mediterraneo - bacino tutt'altro che decaduto -
invece non solo tenevano bene ma riuscivano anche a
svilupparsi. Ma ancora per poco.
Intorno al 1590 fosche nubi si addensarono sulla penisola, e non per modo di
dire. Piogge di notevole intensità, a livello torrenziale, si riversarono
sull'intera Europa occidentale per più anni di seguito e non risparmiarono
neppure le terre italiane. A quanto sembra tali fenomeni erano collegati a
quella fase climatica denominata dagli storici piccola era glaciale (o
anche stadio di Fernau) attraversata
dall'Europa grossomodo dalla metà del Cinquecento fino alla prima metà dell'Ottocento. All'interno di tale periodo gli anni
caratterizzati da inverni rigidi ed estati fresche (se non addirittura fredde)
furono molto frequenti con un conseguente aumento delle precipitazioni nevose e
piovose, un clima ovunque più umido, e l'avanzata dei ghiacciai alpini. Il
decennio 1590-1600 fu appunto uno dei più freddi di tale periodo climatico e
gli stessi ghiacciai alpini vennero talmente
alimentati dalla neve e dall'assenza di estati calde, che alla fine raggiunsero
proprio intorno all'anno 1600 il primo dei tre picchi di avanzata del XVII
secolo, ricoprendo villaggi e campi montani. Un po' per il freddo che
danneggiava le piante ma soprattutto a causa dell'umidità e delle abbondanti e
continue piogge che ostacolavano la maturazione delle
messi ed impedivano ai chicchi stessi di mettere radici, l'agricoltura di tutta
l'Europa occidentale fu messa in ginocchio. Anche nella nostra penisola i
raccolti vennero rovinati e pure la Sicilia, il
granaio dell'Italia, nel 1592 cessò di esportare grano e si ridusse essa stessa
alla fame. La situazione divenne così disperata che come riportano le
testimonianze dell'epoca la gente in tutta Italia
arrivava a mangiare anche i cani, i gatti e persino i serpenti. I vari governi
dei singoli stati nazionali cercarono allora di correre ai ripari. Il segretario
di Stato veneziano Marco Ottobon, ad esempio,
si precipitò a Cracovia per cercare di assicurare alla Serenissima le eccedenze
di grano polacco, anche se rassegnato a pagarle a caro prezzo. Dalla Polonia a
Venezia il grano trasportato via terra giunse infatti
con il prezzo quadruplicato. Gli uomini di governo di allora sapevano bene che
i costi di trasporto via terra erano molto alti e che l'unico trasporto
conveniente per i beni di largo consumo era quello via mare. Così a cominciare
dal Granduca di Toscana presero una decisione che a lungo
andare si rivelò una pessima idea, il vero fondamentale motivo del
declino economico dell'Italia: si rivolsero ai mercanti di grano olandesi e
inglesi. In breve le navi di quelle due nazioni oltrepassarono lo stretto di
Gibilterra e attraccarono al porto di Livorno. Le affamate città italiane
ebbero di che sfamarsi, ma gli Olandesi e gli Inglesi una volta entrati nel
Mediterraneo non se ne andarono più e nel breve volgere di qualche decennio
finirono per fare concorrenza alle stesse navi genovesi e veneziane fino ad impossessarsi dei loro traffici e dei loro mercati.
Persino degli stessi mercati della penisola.
Sin dal Quattrocento l'Olanda aveva fondato i suoi commerci ed
il suo sviluppo economico soprattutto sul grano. Percorrendo le rotte del Mar
Baltico e del Mare del Nord, i battelli olandesi caricavano le eccedenze di
cereali da luoghi dove esso era più abbondante e
costava meno, generalmente dalla Polonia tramite il porto di Danzica, per poi
rivenderle dove esso scarseggiava e quindi aveva un prezzo più alto, come
nell'importante regione densamente urbanizzata e industrializzata delle
Fiandre. Con il notevole incremento demografico dei secoli XV e XVI il grano si
vendeva dovunque e facilmente, e per gestire sempre
meglio un traffico così importante gli olandesi divennero dei veri maestri
nella costruzione di svariati tipi di navi (per lo più di piccola stazza) molte
delle quali venivano acquistate anche da altre nazioni come l'Inghilterra e la
Francia. All'inizio del Seicento alcuni osservatori come Walter Raleigh stimavano che l'Olanda avesse al suo attivo qualcosa come
20.000 vascelli, sia commerciali che militari, una cifra di gran lunga
superiore alle navi di tutte le altre nazioni europee messe insieme. La cosa
più sorprendente tuttavia era il basso costo di esercizio rappresentato da
ognuna di queste navi rispetto a quelle degli altri paesi, con positive
ricadute sui costi di trasporto decisamente più bassi
anche per le merci di altre nazioni. Il costo della manodopera tuttavia non era
più basso rispetto alle altre flotte: anzi sembra che i marinai olandesi
fossero pagati meglio degli altri colleghi europei. Dove stava allora il trucco ? Per dirla in termini moderni, ogni nave era automatizzata
il più possibile. Una sofisticata dotazione di argani,
verricelli, velature di nuovo tipo consentiva ad ogni vascello di essere
manovrato da un numero minore di marinai, così come la stazza più piccola (da
200 a 500 tonnellate), la linea più allungata, e naturalmente la migliore
velatura consentivano una velocità maggiore. Anche i vascelli inglesi, essendo
stati in gran parte costruiti in Olanda godevano di
simili vantaggi. Facendo generalmente base nel porto di Livorno, divenuto porto franco nel 1593 proprio per accogliere quelle navi
cariche di grano come una manna dal cielo, i vascelli delle due nazioni
settentrionali cominciarono a percorrere il Mediterraneo a fianco dei veneziani
e dei genovesi. Dato il loro basso costo di esercizio
potevano tuttavia permettersi di offrire prezzi più vantaggiosi per il
trasporto delle merci, e dal momento che erano anche molto più veloci dei
pesanti vascelli italiani riuscivano ad effettuare almeno il doppio dei viaggi.
Per dirla in termini sportivi, non ci fu proprio gara. Entro i primi trent'anni
del Seicento le navi Anglo-Olandesi si impossessarono
praticamente di tutte le rotte del Mediterraneo: quella verso l'Oriente
ottomano con cui si sforzarono anche di rimanere in ottimi rapporti; quella
verso Ragusa-Dubrovnik, porta d'accesso ai mercati
balcanici e danubiani; quelle da e per l'Africa settentrionale; e
particolarmente importante la rotta che superata Gibilterra andava verso il Nord-Europa. Per ironia del destino proprio intorno al 1630
la Sicilia riuscì a superare finalmente la propria crisi cerealicola, ed anzi dalla metà del XVII secolo in poi la produzione di
grano fu addirittura superiore ai livelli del secolo precedente. Ma ormai la frittata era fatta: il Mediterraneo aveva altri
protagonisti.
Genova e Venezia rimasero in breve tempo spiazzate da una concorrenza così
efficace, frutto di migliori tecnologie navali. E tale superiorità tecnologica
non era solo un'esclusiva delle navi mercantili ma si
ritrovava anche nelle navi da guerra. Allorchè tra il
1616 ed il 1619 i galeoni olandesi protessero
l'Adriatico e Venezia da possibili attacchi delle navi spagnole, questo per la
Serenissima ebbe quasi il significato di una bandiera bianca. In realtà il
danno maggiore che gli Olandesi stavano arrecando a Venezia non era solo al suo
prestigio di ex potenza egemone sul Mediterraneo, ma anche alla sua stessa
ricchezza economica principale. Alcuni anni dopo il loro ingresso trionfale nel
Mediterraneo, cioè a partire dal 1598, le navi
oceaniche olandesi cominciarono a percorrere regolarmente l'Oceano Indiano per
entrare direttamente nel commercio delle spezie. A differenza dei portoghesi
che avevano tentato di controllare solo il traffico dall'India al Mediterraneo,
gli Olandesi andarono direttamente alle fonti di produzione spingendosi fino in
Indonesia. Un po' con le buone, un po' con le cattive, fondando colonie proprie
o facendo alle autorità locali offerte che non potevano rifiutare, riuscirono praticamente a monopolizzare l'intero traffico
delle spezie dirottandolo lungo la via atlantica del Capo di Buona Speranza
dove fondarono una fiorente colonia. Le tradizionali rotte del Golfo Persico e
del Mar Rosso si ridussero a livello insignificante, ai porti mediterranei di
Aleppo, Suez ed Alessandria non arrivarono più spezie,
e sia per i portoghesi ma soprattutto per i Veneziani fu praticamente la fine
di questo commercio, e con esso della prosperità economica. Fu soltanto a
questo punto che il Mar Mediterraneo cominciò a diventare un mare di serie B
rispetto ai traffici oceanici in pieno sviluppo.
La perdita di competitività di Venezia e Genova rispetto alle navi
anglo-olandesi si dimostrò tuttavia a lungo andare un
danno gravissimo anche per tutte quelle ricche città manifatturiere che
all'interno della penisola producevano soprattutto tessuti di lana e di seta.
Un vecchio detto recita: "se il mercante vende,
l'industria lavora". Le veloci e rampanti navi delle due nuove nazioni
impossessatisi del Mediterraneo non sostituirono semplicemente i servizi di
trasporto veneziani e genovesi con quelli propri, ma cercarono di piazzare sui
mercati mediterranei oltre ai prodotti italiani anche quelli delle rispettive
madrepatrie. Così accanto ai tessuti italiani di ottima qualità ma tradizionali
ed antiquati per stile e colori, offrirono un genere
di tessuti di qualità inferiore, ma più leggeri, più colorati e soprattutto di
stile diverso. Inoltre - cosa di non poco conto - i tessuti inglesi ed olandesi avevano un costo inferiore, per diversi motivi. Dal momento che anche a quei tempi il risparmio,
l'originalità ed i mutamenti della moda avevano la loro importanza, i
tradizionali e più pesanti tessuti italiani finirono per essere soppiantati da
queste "new draperies"
come venivano definiti, e non solo sui mercati mediterranei e balcanici ma persino
nella stessa penisola. Se si considera inoltre che nello stesso periodo la
devastante Guerra dei Trent'anni (1618-1648) stava
mandando in crisi anche i mercati dell'Europa centrale - regioni
tradizionalmente importanti per i prodotti italiani - si possono comprendere
appieno le fredde statistiche riguardati il declino dell'industria italiana nel
XVII secolo. All'inizio del Seicento i telai di Venezia riuscivano a produrre
ed esportare verso il Mediterraneo orientale intorno a 25.000 panni di lana
l'anno. Un secolo più tardi si erano ridotti a sole
100 unità (50 a Costantinopoli ed altrettanti a Smirne). A Milano sempre
all'inizio del XVI secolo quasi 3.000 telai producevano stoffe di seta. Nel
1635 ve ne erano solo 600. A Firenze la produzione annuale di panni di lana
sempre all'inizio del 1600 si aggirava sulle 14.000
unità, ma già intorno al 1640 la quantità era scesa a 6300, meno della metà.
Sempre a Firenze una trentina d'anni più tardi, nel 1668, il conte Priorato Gualdo si lamentava che gli Olandesi coi
propri tessuti leggeri avevano ormai reso difficilissima l'esportazione dei
tradizionali panni fiorentini. In tutti gli altri centri minori
la contrazione della produzione assunse pressappoco le stesse
dimensioni.
Un illustre storico dell'economia come Carlo Maria Cipolla ha fatto notare come
altri handicap gravavano sulla produzione italiana di tessuti, come un più alto
costo della manodopera imposto dalle potenti corporazioni ai produttori; tasse
più pesanti sulle merci da parte dei singoli governi della penisola; ed anche
una generale incapacità da parte degli stessi produttori di innovare tecnologia
e beni, restando tradizionalmente legati alle forme produttive del passato.
Certamente anche questi ultimi fattori - già presenti nel Cinquecento ma di
peso relativo fintantochè la domanda di prodotti
italiani continuava ad espandersi - giocarono un loro
ruolo in un periodo di invasione dei mercati mediterranei e di forte
competizione. Ma in definitiva il fattore decisivo del
declino dell'economia italiana nel Seicento si rivelò la forte e costante
intraprendenza economica di Inglesi e Olandesi che trovarono anzi nel
Mediterraneo un'ottima occasione per sviluppare ulteriormente la propria
economia o riprendersi da precedenti periodi di crisi, come nel caso dei
produttori anglosassoni dopo la fine commerciale di Anversa nel 1586.
Con la perdita dell'egemonia sulla navigazione mediterranea, il commercio delle
spezie rovinato, e le manifatture tessili che chiudevano, tutti coloro che in Italia avevano ancora qualche risorsa - i
mercanti, i produttori di un tempo, ma anche i nobili ed i ricchi benestanti -
trasferirono i loro investimenti dalle ricche città di una volta alle piccole
località di campagna, sia per impiantarvi piccole attività rivolte al mercato locale,
sia soprattutto per acquisire proprietà terriere ed immobiliari, come fecero ad
esempio i ricchi veneziani che edificarono le splendide ma improduttive ville
lungo il fiume Brenta. L'Italia da potenza commerciale ed
industriale egemone sul Mediterraneo ed in Europa aveva ormai assunto un volto
di paese rurale e marginale. Soltanto nell'Ottocento approfittando delle
favorevoli congiunture economiche della rivoluzione industriale, ed anche
dell'apertura del canale di Suez nel 1869, l'economia dell'Italia unita sarebbe
stata nuovamente stimolata a recuperare il terreno
perduto.
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BIBLIOGRAFIA ED OSSERVAZIONI.
WILSON, H. C., Il problema storico della
crescita e del declino economico all'inizio dell'età moderna, in: Storia
Economica Cambridge, vol. V, Torino, 1978. (da p. 39 a
p. 42 viene discusso il problema del declino italiano nel XVII secolo e della
sua conversione da paese urbano e manifatturiero a paese agricolo e
"neo-feudale).
PARRY, J., H., Le vie dei trasporti e dei
commerci, in: Storia Economica Cambridge, vol. IV, Torino, 1975 (a p. 180
vengono riportate le notizie sul commercio di cereali dalla Sicilia, e
all'interno del Mediterraneo in genere. La media di 10.000 tonnellate di grano
prodotto in Sicilia venne spesso superata arrivando
anche a più del doppio, 21.000 tonnellate nel 1532. Da p. 197 a p. 192 viene descritta l'organizzazione del commercio delle spezie
e le sue vicende nel XVI secolo. Da p. 243 vengono
descritte le navi dell'epoca).
HELLEINER, K. F., La popolazione in Europa
dalla peste nera alla vigilia della rivoluzione demografica, in: Storia
Economica Cambridge, vol. IV, Torino, 1975 (da p. 39 a p. 42, la situazione
demografica italiana nel Cinquecento; da p. 58 a p. 60, gli sviluppi nel
Seicento).
GLAMANN, K., La trasformazione del settore
commerciale, in: Storia Economica Cambridge, vol. V, Torino 1978 (a p. 259 è
riportato l'episodio del viaggio di Marco Ottobon in
Polonia. Da p. 260 vengono descritti i mutamenti nel
commercio dei cereali dopo il 1590. Da p. 299 la conquista dei mercati
mediterranei da parte dei tessuti inglesi e olandesi).
LE ROY LADURIE, E., Tempo di festa,
tempo di carestia (storia del clima dall'anno mille), Torino, 1982 (E' uno dei
testi più completi, ma anche di più difficile lettura sulla storia del clima,
in quanto - contrariamente al titolo - non è un testo divulgativo, pieno zeppo
com'è di tabelle, curve statistiche, teorie meteorologiche, eccetera. Ad ogni
modo, le notizie riguardanti la crisi climatica della fine del Cinquecento si
trovano alle pagine 69-70. Pare che le rovinose precipitazioni devastarono
soprattutto il versante occidentale dell'Europa, in quanto
più esposto alle perturbazioni atlantiche. L'Europa orientale fu invece colpita
soprattutto da forti gelate, che com'è noto se non sono fuori stagione possono
addirittura giovare alla maturazione dei cereali una volta passato l'inverno.
In ogni caso pare che la Polonia non mancasse di cereali durante quegli anni di
carestia).
CIPOLLA, C. M., Storia economia dell'Europa pre-industriale, Bologna
1980 (da p. 255 viene discusso il problema del declino
economico dell'Italia nel Seicento. L'autore rintraccia nell'eccessivo potere
delle corporazioni artigiane, nel più alto costo dei lavoratori italiani, ed in un maggior peso fiscale, le cause del maggior costo
dei tessuti italiani rispetto a quelli anglo-olandesi, con la conseguente
perdita di competitività. Ma vi era un'altra ragione per cui
i nuovi tessuti stranieri erano più economici, e cioè il fatto che essendo più
leggeri saltavano alcune fasi del processo produttivo rispetto a quelli più
pesanti della penisola: in altre parole il numero di artigiani che nella
"catena produttiva" trasformavano la lana grezza in una stoffa finita
era minore all'estero che in Italia. Per il resto non bisogna dimenticare che
anche una nazione come l'Olanda era oberata da un gran numero di imposte, soprattutto indirette, per il buon funzionamento
dell'apparato statale, militare e dei servizi interni, come ad esempio la
fondamentale manutenzione di dighe, chiuse, canali, eccetera. Alle pagine 269 e
270 del medesimo testo l'autore riporta i meriti dell'Olanda in campo navale,
il reale e fondamentale asso nella manica del successo economico di questa
nazione, come avvenuto sempre nella storia).