Ritratto di Carlo V
d’Absburgo
di Enrico Pantalone
Parlare di un
personaggio come Carlo V non è mai difficile, tanti sono gli argomenti che si
possono trattare, fondamentale, però in un uomo come lui è comprenderne bene la
personalità e tutti i suoi atti quotidiani spesso così diversi da quelli della
società che gli gravitava intorno.
Il suo potente
cancelliere, il Gattinara, subito dopo l’elezione di Carlo a Imperatore di
Germania o del Sacro Romano Impero, non mancò di esortarlo a compiere la strada
che l’elezione stessa gli aveva aperto innanzi, diventare il Monarca del mondo
intero, considerando anche le nuove terre conquistate pochi decenni prima oltreoceano.
Carlo era molto
preparato, aveva studiato molto più di altri sovrani dell’epoca ed era in grado
di discutere su quasi tutto lo scibile umano con dovizia e precisione, proprio
per questo era convinto che il suo vasto impero lo dovesse soprattutto alle
accorte alleanze dinastiche perpetrate da anni allo scopo d’arrivare al punto
in cui egli si trovava una volta eletto e all’onnipresente volontà divina.
Egli era ben
conscio di rappresentare la mano di Dio, moralmente e politicamente per portare
la sua parola ovunque, attenzione, egli non si voleva sostituire alla missione
spirituale rappresentata dal Papato Romano, ma non sentiva la necessità che
quest’ultimo s’intromettesse negli affari politici.
Carlo aveva uno
spirito etico superiore a tutti gli altri monarchi del tempo, viveva
spartanamente come un normale soldato, spesso riceveva diplomatici o sovrani
nella sua tenda che conteneva a malapena le sedie e un tavolino di misera
fattura, non amava la corte, anzi la detestava, preferiva stare al contatto con
la gente comune dalle cui parole traeva spesso le intuizioni migliori sul modo
d’agire.
Insomma lui si
riteneva un monarca prestato al cattolicesimo perché lo servisse al fine
indissolubile di ampliare il più possibile il suo raggio d’azione spirituale,
egli non lottava
certamente per sé
stesso (come faceva invece Francesco I di Valois, re di Francia, e suo grande
avversario in quegli anni) ma come capo di un Impero Cattolico.
Molti dubbi sorsero
allorché Carlo fece eleggere il suo precettore Adriano di Utrecht al soglio
pontifico, egli indubbiamente versò molto danaro per questa elezione forse perché
pensava di privare la Francia di un alleato fino ad allora sicuro, ma in
sostanza egli non fece nulla perché la politica papale si modificasse in suo
favore e comunque Adriano VI morì povero dopo poco tempo chiudendo ogni
possibile successiva illazione perché si comprese che fu solamente un atto di
generosità verso chi l’aveva istruito in gioventù in maniera così sapiente.
Egli si occupò a
malapena di politica interna alla Spagna, del resto lui viveva poco tempo in questo
territorio e spesso non ne conosceva nemmeno i problemi come quando, proprio
all’inizio del suo mandato imperiale, si trovò di fronte in Castiglia alla
rivolta dei comuneros guidati da Juan Bravo, rivolta formata da tutta la gente
produttiva cittadina: mercanti,
artigiani, fabbri, legali e contadini.
Essi non volevano
abbattere la monarchia ma chiedevano solamente maggior attenzione ai loro
problemi quotidiani e che il re/imperatore soggiornasse di più nel paese
iberico.
In questo caso
Carlo ordinò di reprimere con durezza la rivolta che oggi definiremmo
“borghese”, forse ispirato da aristocratici da strapazzo che temevano per le
loro prebende, eppure molti aristocratici leali servitori della corona,
parteggiavano invece apertamente per Bravo e i
comuneros, perché erano l’unica forza viva
della nazione ma non bastarono, comunque l’imperatore commise certamente un
errore politico e sociale in questo frangente.
Azzardiamo
l’ipotesi che l’aristocrazia lealista, la quale appoggiava i comun eros, fosse
riuscita a imporre la propria linea e a governare, lo stato spagnolo avrebbe
avuto senza dubbio potuto dirigere l’esercito meglio
di chi invece pensava solamente ad arricchirsi, la borghesia cittadina avrebbe
supportato Carlo finanziariamente rendendolo libero dagli impegni assunti coi
banchieri tedeschi protestanti e questo avrebbe avuto il suo peso anche nei
rapporti di religione.
Carlo doveva la sua
grande maestria diplomatica principalmente al
Gattinara che non si stancava mai di ricordagli le virtù degli antichi romani
in quel campo e le più corrette applicazioni del diritto in tal senso una volta
entrato in possesso di un nuovo territorio.
Il Gattinara, insigne giurista, fu per Carlo V qualcosa di più di un cancelliere,
forse fu l’unico vero e proprio amico di cui l’imperatore potesse fidarsi
ciecamente e che non lo tradì mai.
Un capitolo a parte
merita certamente la guerra con Francesco I di Valois, re di Francia, il suo
contraltare perfetto: sbruffone, donnaiolo, completamente a digiuno di finanza e
amministrazione dello stato che spesso confondeva con le sue esigenze, grande
protettore delle arti degli artisti e difensore dichiarato del Papa in Roma.
Al di là delle
prese di posizione ufficiali, Carlo V nutriva un grande rispetto per Francesco
e trovava del tutto naturale che egli lo combattesse in quanto la Francia era
una grande potenza ed il suo dovere era esattamente quello.
Egli “guerreggiò”
con il francese dal 1521 fino al 1547, quando Francesco morì, privando Carlo
del suo “nemico naturale” a cui oramai era affezionato.
Carlo riteneva
Francesco un buon re cattolico, ma non ne approvava la vita di corte spesso
dissoluta, secondo lui un monarca doveva essere sempre etico e moralmente
superiore a tutti, per Francesco certamente non sembravano questi fattori
invece così importanti.
Dal punto di vista
politico e militare le guerre con Francesco I finivano sempre per avere il
territorio italiano come scenario principale e questo era dovuto al fatto che
Milano e la Lombardia rappresentava la via necessaria per il transito delle
truppe imperiali verso il dominio nord-orientale di Vienna e delle grandi terre
danubiane e Napoli rappresentava senz’altro un ponte verso il Mediterraneo ed i
suoi commerci: così il loro possesso diventava vitale e necessario per
entrambi.
Si è parlato poco
innanzi del Gattinara, egli come cancelliere una volta che fu nominato al posto
del Chievres propose una politica esattamente contraria a quella del suo
predecessore: i francesi dovevano essere
sloggiati dal territorio italiano sei si voleva mantenere un potere duraturo e
stabile e così Carlo fu convinto della bontà della nuova via da seguire.
Così in Lombardia e
in Borgogna furono teatro di numerose battaglie tra i due eserciti senza
peraltro che nessuno prevalesse sull’altro almeno fino a Pavia nel 1525 dove
gli imperiali sconfissero i francesi e, in sostanza, tutta la crema della sua
aristocrazia, la famosa cavalleria che fu massacrata dai mercenari tedeschi e
dai fanti spagnoli con lo stesso re fu fatto prigioniero.
Carlo non voleva
infierire su Francesco, lo liberò dopo la firma del Trattato di Madrid e gli
concesse perfino la mano di sua sorella Eleonora: probabilmente negli
intendimenti di Carlo s’era fatta strada l’idea che un possibile erede avrebbe
portato definitivamente la Francia in orbita imperiale absburgica senza tener
conto della mentalità del francese, inviso alla lealtà e all’etica morale, il
quale appena tornato a Parigi libero ricusò tutto e riprese la guerra.
Forse per la prima
volta Carlo V si trovò in seria difficoltà perché la coalizione guidata dal re
francese assunse un aspetto decisamente importante e che soprattutto faceva
riferimento alla Fede cattolica mettendo in dubbio per contro proprio quella
dell’Imperatore che evidentemente accusò il colpo anche a livello d’immagine.
Per noi italiani fu
una delle pochissime volte in cui tutti gli stati rinascimentali erano uniti
contro qualcuno: Milano, Venezia, Genova, Papato, Firenze combattevano insieme
sotto le insegne della Lega Santa e contro Carlo V, in realtà l’idillio non
durò a lungo perché le defezioni iniziarono presto.
Carlo V che pure
era cattolico zelante non disdegnò d’utilizzare mercenari protestanti tedeschi
e questo causò senza dubbio una falla nella sue reali intenzioni religiose, ma
egli, a mio giudizio, si comportò necessariamente come avrebbe dovuto
comportarsi un monarca degno del titolo che portava, era pragmatico e tutto
veniva anteposto alla riuscita dei suoi intenti.
Così, nonostante i
suoi dubbi da cattolico, egli non fermò il sacco di Roma da parte dei
lanzichenecchi protestanti, il Papa era un Medici, un nemico della coalizione
avversaria ed andava sconfitto: nei tratti del monarca spagnolo se ne intravvedevano
numerosi simili a quelli degli spartani antichi, difficili da trovare a quei
tempi.
Vinta la guerra
contro Francesco e reso nuovamente prigioniero lo stesso, lasciò moderare i
termini della pace a due arzille dame: la madre di Francesco e sua zia, le
quali conclusero un accordo onorevole nel 1529 a Cambrai anche se ciò non mise
fine alla contesa eterna tra i due re.
Infatti, appena
nominato Re d’Italia, Carlo dovette riprendere la lotta con i francesi che gli
contendevano il dominio sul bel paese: un’annotazione interessante è quella che
vuole l’Imperatore molto felice della corona italica, certamente priva di reale
potere sui tantissimi stati, ma ambita dal punto di vista umana e sociale, egli
ne parlava sempre con molta devozione, non come un inutile gingillo noioso.
La Pace di Crepy
nel 1544 metteva poi fine alla lunga battaglia personale tra i due principali
antagonisti europei dell’epoca con un accordo diplomatico dinastico che
soddisfaceva entrambe le parti e si rimettevano in pieno clima di Controriforma
al volere del Papa d'unità contro il nemico turco, Francesco sarebbe morto da
li a pochi anni, Carlo sarebbe sopravvissuto dodici anni.
Carlo probabilmente
subì proprio l’unica grave sconfitta sul piano religioso, per molti decenni
ebbe il papato contro, fattore inammissibile per un devoto e zelante cattolico
come lui, e nel frattempo doveva sopportare il proliferarsi prima e la vittoria
poi della Riforma Protestante nei suoi domini germanici e nelle Fiandre, oltre
che nei Paesi Bassi.
Il carattere di
Carlo si vide proprio in questa situazione religiosa, egli, infatti, non smise
mai d’incolpare la chiesa romana per l’affermazione della Riforma e
probabilmente non aveva tutti i torti: egli così etico e serio non comprendeva
come un’istituzione morale potesse essere scesa così in basso, in qualche modo
pur non approvandola egli comprendeva l’istanza protestante da uomo pratico
qual’era.
Del resto il famoso
lasciapassare a Lutero, un atto etico e da vero grande monarca, con l’invito a
spiegare le sue ragioni davanti a lui ci mostra non un uomo tentennante ma
estremamente realista: egli non poteva imporre a nessuno una sua allocuzione
teologica perché non si riconosceva questo diritto, poteva solo ascoltare e al
massimo riferire ad un Concilio Ecumenico come testimone.
Molti zelanti
cattolici gli rimproverarono d’aver lasciato tornare indietro sano e salvo
Lutero senza trattenerlo o consegnarlo all’Inquisizione: qui potremmo leggere
in lui una sorta di presunzione o arroganza dettata dal suo titolo imperiale
nei confronti di una chiesa romana che senz’altro non lo comprendeva appieno e
una sorta d’idealismo etico che lo portava a mantenere la parola data in ogni
occasione.
Tuttavia anch’egli combatté la sua brava
battaglia contro i protestanti a Muhlberg nel 1547 sconfiggendo la loro lega di
Smalcalda ma ciò portò al disfacimento della coalizione cattolica perché ancora
un volta papato e Francia ritenevano che egli si fosse rafforzato troppo…….e lo
lasciarono solo…….in realtà Francesco moriva quell’anno e Carlo iniziò a
sentirsi troppo vecchio per coronare il sogno dell’Impero Universale dove non
tramontasse mai il sole che s’infranse come un castello di carte: egli stesso
lo capì benissimo ed iniziò la sua lenta riflessione che lo portò più tardi
all’abdicazione.
Combatté ancora per
alcuni anni, ma il fisico non lo reggeva più, troppo spesso era costretto a
seguire le vicende in improvvisate carrozze “ospedaliere” piuttosto che da un
cavallo e questo doveva dargli una grande tristezza, lui che aveva sempre
vissuto nelle tende militari, con un tavolino ed un seggiolino come unico
arredamento era ora costretto a farsi aiutare negli spostamenti.
Comunque era
soprattutto il fallimento della sua politica che lo aveva
ancor più intristito e demotivato, sapeva che prima di morire avrebbe
dovuto dividere la parte occidentale dell’Impero: re, il figlio, imperatore
(della parte orientale) il fratello.
Questo gli faceva male,
anche se tutto restava ovviamente in famiglia, la più dura famiglia regnante
della storia europea: gli Absburgo.
Così la sua
decisione di abdicare nel 1556 non fu certamente una sorpresa e nemmeno quella
di rinchiudersi in un monastero dell’Estramadura che era in linea con il suo
spirito ascetico e spartano, non pretese nessun riguardo visse gli ultimi due
anni come uno dei tanti monaci con cui condivideva lavoro e refettorio.
Carlo V ebbe
certamente qualche difficoltà nel districarsi dai molteplici interessi
politici, religiosi, sociali e militari in cui si era impegnato, ma egli li
affrontò sempre con spirito ardimentoso e soprattutto con una volontà ferrea di
porre fine a ogni problema, cosa peraltro non sempre riuscita o riuscita
parzialmente.
Avendo una corte
itinerante e con pochi validi consiglieri egli non ebbe certamente il tempo per
dedicarsi maggiormente all’impatto sulla società che la nuova fede religiosa,
quella riformista protestante, aveva modificato per sempre, egli non capì o non
volle probabilmente mai cercare di capire, si limitò a mandare solerti
comandanti d’esercito che ovviamente non fecero alto che peggiorare le cose
nelle regioni in cui operarono, ma al tempo stesso egli adoperava ugualmente eserciti
protestanti pagandoli profumatamente e i banchieri tedeschi, tutti protestanti,
erano sempre i benvenuti al suo cospetto, ma evidentemente qui si trattava di
un campo quello militare-economico che sfuggiva alle regole in un’Europa in cui
gli incendi divampavano un po’ ovunque.
Carlo visse
profondamente e interamente il suo destino, egli non sorrideva mai, era
indubbiamente un uomo valoroso ma non poteva competere sul piano della
popolarità con Francesco di Valois, il quale pur sempre perdente se la cavava
ogni volta senza pagare dazio o quasi per questo con ogni probabilità Carlo si
“scelse” il suo avversario (il re francese per l’appunto) e tale lo mantenne
fino alla sua fine proprio perché gli faceva comodamente da contraltare
idealistico, in modo che egli potesse mostrare il suo modo di concepire la
vita, scevro da futilità inutili e
impregnato di spiritualità etico-morale da civiltà antica: Carlo era un
Imperatore nel vero senso della parola (quella della romanità per intenderci)
con un grande attaccamento allo Stato che governava, la guerra per lui era un
mezzo per soddisfare questa necessità, al contrario Francesco appariva
solamente un Re, ardito e valoroso quanto si voglia, grande amante dell’Arte,
della Cultura e soprattutto delle belle donne ma totalmente incapace di gestire
gli affari e le pubbliche finanze, per lui la guerra era ancora un gioco per
aristocratici, lo dimostrò a Pavia dove la crema della nobiltà francese, la
famosa cavalleria, s’immolò senza scopo contro i picchieri e gli archibugieri
imperiali che di nobile ed aristocratico non avevano nulla ma vinsero.